martedì 25 febbraio 2014

La luna nel pozzo



Un forte odore di muffa riempiva la casa abbandonata da parecchi anni. Il sole penetrava debolmente dalle finestre socchiuse, l’aria fresca sibilava dall’uscio semiaperto facendo svolazzare alcune foglie sul pavimento.
Erano arrivati la mattina all’alba, il treno si era fermato dopo che la vecchia locomotiva a vapore aveva sbuffato. Il macchinista aveva tirato i freni che, stridendo, avevano squarciato il silenzio che avvolgeva la vallata. I campi di granoturco circondavano le poche abitazioni, in lontananza si intravedevano le montagne e verso le colline si estendeva la palude. La stazione era uno stabile diroccato e il capostazione, un individuo piuttosto burbero, se ne stava assopito su una sedia arrugginita. Il fischio della locomotiva lo aveva svegliato di soprassalto e per poco non era caduto a terra dallo spavento. Si era alzato borbottando, si era infilato il cappello sgualcito e con una paletta rossa aveva fatto dei segnali al macchinista. Il treno si era fermato e la stazione era stata avvolta da una sottile nuvola di fumo. Il capostazione aveva tossito maledicendo quel lavoro che svolgeva da anni.
Le porte si aprirono e dal vagone scesero una decina di persone. Un vecchietto con un cappello a bombetta che, sostenuto dal proprio bastone, faceva fatica a scendere gli scalini, una signora anziana con una gonna molto larga, intenta a non inciampare per non cadere, una famiglia con tre ragazzi dall’aria malinconica, il controllore che aveva dormito in fondo alla carrozza russando sonoramente per tutto il viaggio, e infine una giovane donna con il figlioletto. 
«Ecco, siamo arrivati!» pronunciò la mamma al piccolo che faticava a tenere gli occhi aperti per la stanchezza. Il viaggio era durato diverse ore e il bambino era stravolto. La scuola era finita da un paio di settimane e Nives, così si chiamava la donna, aveva finalmente deciso di recarsi nel vecchio paese di Stoffanera dove aveva vissuto da bambina. Quando i suoi genitori erano morti durante la Guerra dei Trisavoli lei era stata affidata alla vecchia zia Miranda che viveva a Tirambolo, nella regione del Fossato. E a Stoffanera non vi era più tornata. Era cresciuta e aveva avuto la possibilità di studiare, zia Miranda le voleva bene e l’aveva accudita come una figlia. Ma poi era diventata una donna, si era innamorata del suo compagno di scuola Eric, con cui si era sposata, ed era nato Mirko, il figlioletto dai capelli rossi sempre arruffati con piccole lentiggini sul naso. Mirko adesso aveva otto anni e da quando Eric se n’era andato Nives non desiderava altro che tornare nel paese dov’era stata bambina. La donna aveva pianto per giorni e i suoi singhiozzi avevano rimbombato nella casa silenziosa in cui vivevano. 
Erano passati sei mesi dalla scomparsa di Eric e Nives aveva preso una decisione: andarsene da quella casa che riempiva lei e il figlio di ricordi facendoli continuamente soffrire. Voleva lasciare Tirambolo al più presto. All’inizio Mirko non era d’accordo, ma poi si era convinto. Anche lui soffriva in quella casa da quando suo padre li aveva lasciati. Nives aveva aspettato che il bambino finisse la scuola per poi raggiungere con il treno il paese natale, dove si trovava la vecchia cascina in cui aveva abitato da piccola. Le erano giunte voci che dopo la morte dei suoi genitori la casa fosse rimasta disabitata per anni prima che la occupasse una vecchia signora giunta da lontano. Ma poi un giorno questa se ne era andata e il casolare era rimasto di nuovo disabitato. 

Madre e figlio lasciarono la stazione e si incamminarono in silenzio lungo la strada sterrata che attraversava il paese di Stoffanera. Nives fu assalita dai ricordi, aveva dimenticato quelle case costruite una accanto all’altra, affacciate sulla via principale. La bottega delle spezie esisteva ancora, il negozio di tessuti invece era chiuso e accanto era sorto un ristorante che ora pareva abbandonato. Una piccola banca era stata costruita vicino alla vecchia osteria e in lontananza si vedeva il campanile con il tetto spiovente e la chiesa dalle vistose finestre colorate. 
Il tragitto fu breve. In pochi minuti raggiunsero una cascina circondata da uno steccato pericolante. Erbacce e cespugli si erano appropriati della veranda e l’edera aveva raggiunto il tetto coprendo parte delle pareti esterne. 
Mirko non aveva ancora aperto bocca, quel posto non lo convinceva, gli sembrava di essere arrivato in un paese abbandonato. Non c’erano persone in giro e il silenzio era  inquietante.
«Non mi piace qui» disse finalmente alla madre.
«Beh… neanche a me. A chi può piacere una casa ridotta in questo modo?» rispose la donna; anche lei si era accorta del silenzio che avvolgeva il paese. Rivolse un sorriso malinconico al figlio prima di aprire il piccolo e malconcio cancello. Slegato il catenaccio arrugginito, camminarono nell’erba alta e si apprestarono a varcare la soglia. Un rumore assordante giunse dall’interno della cascina.
«Andiamo via!» gridò Mirko alla mamma tirandola per un braccio. Anche lei ebbe un tuffo al cuore. Dopo un attimo di esitazione sbirciò dalla finestra impolverata e ricoperta di ragnatele. L’interno era buio, si intravedevano alcune mensole con vettovaglie e paioli di rame. Quando si decise ad aprire la porta guardò Mirko che se ne stava in disparte impaurito. Spinse l’uscio appena socchiuso ed entrò. Due occhi luminosi la osservavano dal centro della stanza. Esitò prima di spingersi verso quella piccola figura che, furtiva, se ne stava accovacciata nella penombra.
«Mirko! Vieni un po’ a conoscere il padrone di casa!» schiamazzò la madre ridendo. 
Il bambino si avvicinò all’uscio spiando all’interno. Due piccoli occhi lo stavano osservando, improvvisamente la figura nell’ombra spiccò un balzo verso di lui. Il gatto, illuminato dalla luce del sole, sfrecciò veloce accanto al bambino, dileguandosi in tutta fretta. Mirko finalmente sorrise. 
«Ah! Mamma! Era solo un gatto! È stato lui a fare quel rumore prima!» esclamò raggiungendo di corsa la madre.
«Sì! Guarda qui. Quel gattaccio stava rovistando tra le pentole e ne ha fatta cadere qualcuna in terra.»
Il sole andava ormai tramontando, la casa doveva essere completamente ripulita e rimessa in ordine per potervi abitare. Nives e Mirko dormirono accovacciati in un angolo dove avevano sistemato una piccola branda per la notte. 
Il giorno seguente e quelli a venire Nives si diede un bel da fare per sistemare la vecchia casa. Mirko la aiutava volentieri, ma spesso gironzolava nei campi, era un bambino curioso e voleva ambientarsi al più presto in quel posto tutto nuovo. Passò una settimana prima che la casa tornasse ad avere il bell’aspetto di un tempo. Ma c’era ancora molto da fare.
Nessuno fece loro visita in quei giorni, i pochi abitanti di Stoffanera erano anziani e piuttosto taciturni e guardinghi. Non si fidavano degli stranieri e uscivano raramente dalle proprie case. Fu Nives a muoversi per prima. La gente aveva notato la presenza della donna con il bambino nella vecchia casa in fondo alla via, ma nessuno aveva riconosciuto quella bambina dagli occhi celesti e dai lunghi capelli neri che molti anni prima andava a spasso canticchiando per il paese.

Un pomeriggio Nives si diresse verso la bottega che un tempo era del signor Mugolo e che ora era gestita da Elenherian, un’anziana signora. Era stata l’unica persona con cui aveva scambiato qualche parola da quando era tornata a Stoffanera. La vecchia era scorbutica e non gradiva molto colloquiare con lei, ma almeno c’era qualcuno con cui potesse affrontare un discorso. Le poche persone che incontrava per strada la guardavano a malapena, si può dire che quasi la ignorassero. Mirko accompagnava malvolentieri la mamma in paese perchè era intimorito da Elenherian. Lei lo scrutava pensierosa, con quei suoi occhi infossati e scuri, e talvolta sorrideva con un ghigno sdentato.
«Buongiorno, Elenherian!» esclamò Nives entrando nel negozio. Fuori il sole andava oscurandosi, alcune nubi minacciavano pioggia.
«Buongiorno, Nives» rispose con voce roca l’anziana donna. Se ne stava sempre dietro al banco a preparare i barattoli di conserve.
«Saluta, Mirko! Non essere maleducato» disse poi la giovane donna al figlio che se ne stava con la bocca chiusa. 
«Buongiorno, signora» disse debolmente il ragazzino.
Elenherian abbozzò un sorriso.
«Ho visto che vende confetture e spezie. Mi servirebbe un po’ di tutto. Abbiamo deciso di rimanere per un po’ di tempo qui a Stoffanera» esordì raggiante Nives.
«Certamente. Ti preparo una borsa ricolma di tutto ciò che può servire. Questo giovanotto deve mangiare per crescere, dico bene?» domandò la megera al bambino ammutolito.
«Poi andiamo dall’ortolano del paese per fare scorta di frutta e verdura. Ci mancano anche il latte e la carne. C’è qualcuno in paese che ha delle bestie? Non ho visto le vacche al pascolo in questi giorni. Quand’ero bambina si spingevano dalle malghe fino a ridosso della cascina. Noi avevamo molti conigli e un piccolo pollaio…»
Elenherian sbuffò spazientita. Era una donna di poche parole e anche se Nives le stava simpatica non si dilungava volentieri in chiacchiere.
«Scusi…» ribadì Nives «chiedo solo a chi posso rivolgermi per un po’ di carne…»
«Non ti scusare con me, cara. Qui a Stoffanera le cose sono cambiate da un pezzo. Non ti sei accorta che le persone qui sono solo dei vecchi rincitrulliti chiusi nelle loro case o forestieri che si fermano solo per qualche giorno? Non c’è più nessuno che alleva vacche, né conigli o polli» rispose la vecchia indispettita.
«Ma c’è una banca, ho visto alcuni edifici nuovi… ci saranno anche altre persone…» aggiunse Nives. 
Elenherian prese alcuni recipienti e li riempì di origano, pepe, zafferano, rosmarino, timo e salvia, altri di sale e zucchero, altri ancora di farina. Poi mise il tutto in una bisaccia di stoffa insieme ad alcune confetture e a della mostarda. Infine porse la sacca alla giovane donna.
«Quanto le devo?» domandò Nives turbata.
«Niente. Potete andare ora» rispose l’anziana donna.
«Come? La prego, mi dica quanto devo pagare…»
«Senti, ragazza» bisbigliò Elenherian avvicinandosi all’orecchio destro della giovane «lo vuoi un consiglio? Prendi tuo figlio e lascia Stoffanera. Qui le cose sono cambiate da quando eri bambina. Trova il pozzo e vattene finché sei in tempo.»
Nives arretrò spaventata. Mirko stringeva la gonna della madre, con gli occhi sgranati.
«Ma cosa dice… sta spaventando mio figlio… e anche me!» bofonchiò Nives.
«Non sto scherzando! Una volta intrappolata non puoi più lasciare questo posto abbandonato da Dio. Non avete mai guardato il cielo? Non vi siete accorti di nulla? Qui la luna è morta! Andatevene ora e lasciatemi sola!»
Elenherian spinse Nives e Mirko verso l’uscio e chiuse il portone alle loro spalle.
La giovane donna era sbigottita, la serenità si era dissolta in un lampo. Ma soprattutto la sconvolgeva l’espressione di Mirko. Era terrorizzato, gli occhi lucidi e il volto pallido. 
«Ascolta…» disse la madre inginocchiandosi. Con le dita prese il mento di suo figlio per guardarlo negli occhi. Aveva lo sguardo perso nel vuoto.
«Non devi credere a quella donna… è anziana e… probabilmente è anche un po’ pazza. Mi dispiace che hai dovuto sentire tutte quelle sciocchezze. Ti prometto che non torneremo più qui e…»
«Mamma!» esordì finalmente il bambino «non credo che Elenherian sia pazza. Questo posto non mi piace. Credo che lei abbia ragione, forse dobbiamo andarcene.»
Nives si tirò in piedi, voltandosi dall’altra parte. Una lacrima le solcò il viso.
«Io non torno indietro, Mirko. Lo sai questo. Tuo padre se n’è andato e ora siamo solo io e te. Dobbiamo incominciare una nuova vita e non mi farò ostacolare da una vecchia ammattita. Vedrai che ci abitueremo a questo posto. È vuoto, deprimente! Me ne sono accorta anch’io, cosa credi? Ma ciò non vuol dire che non ci si possa vivere.»
Mentre la donna parlava Mirko si accorse di alcune figure che li stavano osservando da dietro le finestre, avvolte nella penombra delle loro case desolanti. Non disse niente a sua madre, non voleva sconvolgerla ancora dopo ciò che aveva sentito dalla vecchia. Mirko sapeva che erano osservati da quando erano giunti in paese. Ma di rado incontravano qualcuno per strada. E non riusciva a farsene una ragione. Il bambino prese la mano di sua madre e insieme si incamminarono verso casa.

Giunse la notte, la pioggia stava per riversarsi su Stoffanera. Nives e suo figlio avevano cenato insieme, lei aveva messo sul fuoco una minestra di legumi e Mirko l’aveva divorata. Non avevano parlato di ciò che era accaduto il pomeriggio nel negozio di Elenherian. Nives aveva sparecchiato la tavola mentre Mirko era uscito come tutte le sere a osservare il cielo. Pensò di fargli compagnia e di tralasciare per una volta le faccende domestiche. Uscì nel cortile ma non lo trovò. Di solito sedeva sulla panca di legno per un’oretta prima di rientrare e andare a letto. Ma quella sera Mirko non era lì. Nives lo cercò agitata nei dintorni del cascinale, lo chiamò a gran voce, spingendosi fino al paese. Lì, avvolta nell’oscurità, per la prima volta dal suo arrivo a Stoffanera, aveva avuto paura. Il paese era deserto, nelle case pareva non abitasse nessuno, non c’erano luci accese o comignoli fumanti. Spaventata decise di tornare a casa di corsa. E del bambino non c’era traccia. Lo aveva cercato a lungo, poi in lacrime, sconvolta era rientrata in casa sperando che suo figlio fosse tornato. Ma Mirko non era lì.

Il bambino correva lungo la via del Granfosso, una voce lo chiamava da lontano, sua madre lo stava cercando. Il cuore gli batteva forte in petto, soffriva pensando a lei che sicuramente era in ansia, ma nella bottega la megera aveva confermato le sue paure. Corse a perdifiato costeggiando la palude, la strada era infangata, quella notte imperversava un tremendo acquazzone ed era bagnato fradicio. In cima alla collina vide una luce fioca. Quando la raggiunse era stremato e sfinito. Bussò fragorosamente alla porta. Dopo qualche istante l’uscio si aprì e un’aria gelida lo colse in viso. Entrò titubante richiudendo la porta alle proprie spalle.

La vecchia era seduta su una sedia a dondolo di legno, mentre fumava la pipa. Il fumo del tabacco si mescolava a quello del fuoco acceso nel camino, minuscole particelle di fuliggine volteggiavano nella stanza addensando l’aria e rendendola irrespirabile. La sferzata di aria gelida si dissolse immediatamente con il calore della casa di Elenherian. L’anziana donna aveva i capelli sciolti che le cascavano sulle spalle, ciocche grigie e arricciate che solitamente teneva raccolte sulla nuca quando si recava nella bottega. 
Mirko la osservò per qualche istante, restando in silenzio e aspettando che dicesse qualcosa. Si aspettava che tra una boccata e l’altra prima o poi la vecchia gli avesse rivolto la parola. Ma Elenherian era immobile davanti al camino, non si era voltata nemmeno per un attimo. Forse non era stata lei ad aprirgli la porta. L’uscio probabilmente si era aperto con il soffio forte del vento. O magari Elenherian si stava rivelando per quello che era. 
«Signora… Elenherian?»  esclamò timidamente.
Ma la vecchia non rispose. Il ragazzo la chiamò altre due volte, senza ottenere risposta.
Intimorito Mirko fece per uscire quando improvvisamente udì un debole brontolio. Si voltò di scatto e si accorse che Elenherian se ne stava in piedi dietro di lui. Non si era nemmeno accorto che si era alzata così velocemente.
«Buonasera… signora Elenherian. Ero venuto per parlare con lei… di quello che ha detto oggi in negozio. Ma forse non è il momento adatto… mia madre mi sta aspettando…»
«Ti ho forse spaventato, Mirko? Accomodati, non avere paura» borbottò.
«Gra… grazie signora» rispose il ragazzo preoccupato.
Si sedettero vicino al camino, il fuoco avvampava, la legna ardeva ed emanava un forte calore. Mirko si sentì la faccia scottare. Spostò leggermente la poltrona dove si era accomodato per non stare troppo vicino al fuoco. Poi guardò la vecchia che ora lo scrutava in silenzio. Finalmente Elenherian iniziò a parlare.
«Non dicevo fesserie oggi, e se sei venuto fin qui credo che te ne sia accorto anche tu. Tua madre invece mi è sembrata molto turbata.»
«Lei non ha ancora visto. È troppo intenta a mettere a posto la casa dove siamo andati ad abitare e non ha badato a ciò che succede in paese. La notte è così stanca che dorme come un sasso. Io invece non riesco a chiudere occhio. Ho paura…»
«È normale avere paura, Mirko. Anch’io ne ho. Ho cercato di lasciare questo posto, più volte. Ma quando mi avvicinavo alla ferrovia il treno non arrivava. Sentivo la locomotiva in lontananza, l’ho aspettata per giorni, inutilmente.»
«Ma noi siamo arrivati con il treno…» 
«Certamente. Arriva, ma non riparte…»
«Ma c’erano anche altre persone… dove sono finite?»
«Si saranno perse. Questo posto è molto grande. Non tutti quelli che arrivano si fermano in paese, tanti vanno oltre, attraversano la palude e le campagne. Fino ai monti. Ma poi tornano sempre a Stoffanera. Non c’è via d’uscita.»
«Ma com’è possibile? Non riesco a capire…»
Elenherian sospirò. Accese nuovamente la pipa che nel frattempo si era spenta, tirò una boccata e l’odore dolciastro del tabacco invase le narici del ragazzo.
«Cosa hai visto esattamente, Mirko?» chiese la donna.
«Il buio…» rispose con un filo di voce.
«Dove?»
Mirko pareva piuttosto turbato dalle domande incalzanti dell’anziana donna.
«Dappertutto» rispose «quando cala la notte in paese non si accende nemmeno una luce e… anche il cielo è completamente scuro. E non solo stanotte che piove…»
«Hai visto bene, allora. A Stoffanera non esistono luci, neppure la luna e le stelle rischiarano la notte di questo posto maledetto!»
«Eppure nella tua casa c’è luce, hai delle lampade e accendi il fuoco nel camino, come nella nostra casa. Perché gli altri abitanti del paese vivono nel buio?»
«Perché sono condannati a vivere nell’ombra.»
«Ma è… assurdo! E noi siamo diversi da loro?»
«Che domande! Certamente! Ma abbiamo commesso uno sbaglio, quello di scendere alla fermata sbagliata!»
Mirko era sempre più confuso. Non riusciva a capire a cosa alludesse Elenherian. 

Nives era uscita nuovamente di casa. I tuoni rimbombavano nella vallata. In lontananza scorgeva la sagoma del paese avvolto nell’oscurità. Avvertì un brivido, l’aria era gelida, ma era il terrore a paralizzarla. Nel buio scorse l’unica altra luce oltre a quella proveniente dalla propria casa. In cima alla collina, oltre la palude. Si incamminò velocemente, aveva il sospetto che suo figlio si fosse diretto lassù. Sapeva chi ci abitava. Il vento impetuoso fletteva i giunchi della palude, mentre la pioggia si riversava abbondante. 
Nives camminò a capo chino, fradicia. Levò lo sguardo per cercare il fievole barlume in cima alla collina quando sentì gli schiamazzi provenire dal paese.

Elenherian si alzò dalla sedia a dondolo. Mirko la seguì con lo sguardo. 
«Tua madre sarà in pensiero. Ti starà cercando.»
«Mi dispiace. Ma ho bisogno di sapere la verità…»
«È pericoloso uscire di notte» incalzò lei.
Mirko si allarmò.
«È successo qualcosa a mia madre?» chiese alzandosi con un balzo dalla poltrona.
Elenherian si avvicinò alla finestra e sogghignò.
«Maledetta!» imprecò il ragazzo raggiungendo la vecchia. Scrutò la vegetazione nell’oscurità e intravide sua madre in lontananza che lo stava cercando. Ma laggiù, dal paese, centinaia di ombre si muovevano verso di lei.

Nives cacciò un grido. Oltre la palude intravide dei movimenti. Quando fu quasi in cima alla collina si accorse che la sua casa era piombata nel buio. Qualcuno era entrato e aveva spento le luci. Accelerò il passo per raggiungere la casa di Elenherian, ancora illuminata. Ma nella foga della corsa inciampò e cadde rovinosamente. 

Elenherian agguantò Mirko per un braccio e lo trascinò fuori dalla casa. Il vento impetuoso urlò la sua furia, aumentò vorticosamente e all’improvviso spazzò la catapecchia della megera mandandola in frantumi. 
«Non sono una donna malvagia!» urlò per farsi udire dal ragazzo mentre imperversava la tormenta «io sono la guardiana di Stoffanera e quando qualcuno scende dal treno lo devo consegnare a loro! È il prezzo che devo pagare per sopravvivere! Dovevate andarvene quando vi ho avvertito! Hanno aspettato a lungo, ma hanno capito che vi volevo aiutare e ora sono venuti a prendere me e anche voi!»
Mirko riuscì a divincolarsi dalla presa della donna. Non riusciva a capire cosa le stesse dicendo. Spinse con forza Elenherian che cadde a terra. Poi corse a perdifiato discendendo la collina finché intravide sua madre.
«Mamma!» gridò.
Nives fece per rialzarsi, vide il figlio che le correva incontro. Sorrise. Ma in un attimo le ombre le furono addosso. Mirko gridò di terrore mentre centinaia di anime nere infestavano la collina.

In quel momento la tormenta cessò. 
Le urla strazianti di Elenherian giunsero improvvise dall’eremo distrutto, le mani rivolte al cielo mentre i fulmini le laceravano il corpo. Con una profezia aveva attirato a sé le saette, queste si erano sprigionate in un enorme rogo che si era avviluppato in lei. Le fiamme illuminarono l’intera collina e le ombre si allontanarono tra gemiti orripilanti. 

«Raggiungete il pozzo!» gridò Elenherian prima di essere avvolta completamente dalle lingue di fuoco. Mirko raggiunse sua madre. La aiutò ad alzarsi e insieme osservarono il terribile rogo scatenato dalla vecchia. Ai margini della palude le ombre si contorcevano dal dolore e cercavano riparo nel buio fitto del paese. Mirko si accorse che le case erano state spazzate via dall’uragano abbattutosi su Stoffanera. Anche la vecchia cascina era scomparsa. Solo la stazione sembrava non essere stata coinvolta. 

«Il pozzo…» udirono proferire dal rogo.
Mirko intuì a cosa alludeva la vecchia. Di lì a poco le fiamme si sarebbero estinte e il suo gesto sarebbe stato vano. Le ombre sarebbero tornate a prenderli. Nives era terrorizzata. Guardò suo figlio e lo abbracciò con forza. Ma Mirko diede uno scossone a sua madre. 
«Dobbiamo entrare nella palude!» gridò «hai sentito cosa ha detto Elenherian? Mamma, sbrigati!»
Nives si lasciò trascinare dal figlio. Non capiva. Attorno a sé il buio andava infittendosi. Le fiamme sempre più deboli si stavano riducendo a un ammasso di braci fumanti quando Mirko vide nascosto tra i giunchi un pozzo di pietra. Avanzarono faticosamente nell’acqua torbida che arrivava alle ginocchia. Quando lo raggiunsero Mirko sbirciò all’interno e sorrise.
«Aiutami, mamma!» sbraitò il ragazzo mentre afferrava una fune che dalla cima del pozzo scendeva in profondità «dobbiamo calarci!»
Nives sembrò rinsavire d’un tratto.
«Cosa… come dobbiamo calarci? Vuoi scendere là sotto? Ma dobbiamo tornare a casa…»
«Appunto… scendi mamma! Non fare storie!»
In quel momento il buio avvolse completamente la palude. Il fuoco si era spento e le anime nere li avevano circondati. L’eco del loro terribile lamento era assordante. Mirko si issò sul bordo del pozzo, afferrò la fune e tese la mano a sua madre mentre le ombre cercavano di strapparla via. Nives riuscì a divincolarsi e con la forza della disperazione agguantò la mano di suo figlio. Entrambi si aggrapparono alla corda e si calarono rapidamente nel pozzo, una luce li abbagliò e le ombre si dispersero all’istante.

La vecchia era scesa alla fermata sbagliata molti anni prima. Accortasi dell’errore aveva cercato di scappare, ma inutilmente. Aveva vagato per giorni prima di trovarsi di nuovo intrappolata in paese e quando aveva capito che il treno non sarebbe più tornato, aveva trovato un compromesso con le anime di Stoffanera. D'altronde lei era diversa da loro, non aveva fatto nulla di malvagio. Per sopravvivere alla loro malignità aveva l’ingrato compito di trattenere tutti coloro che scendevano dal treno e di lasciarli in mano alle anime perdute, anche quelli come lei che erano scesi per sbaglio. Ma quando aveva incontrato Nives e suo figlio, così giovani, non se l’era sentita di affidare altre creature innocenti al buio. Aveva deciso di aiutarli rivelando loro l’unica via di salvezza per chi era stato vittima dell’inganno. 
Elenherian sapeva che finché per Nives e Mirko la luna brillava ancora nel pozzo, potevano mettersi in salvo.

Nives e Mirko precipitarono tra le stelle. Si destarono poco dopo, circondati dal manto soffice dei verdi paradisi illuminati dal sole di giorno e dalla luna di notte. 
La locomotiva a vapore faceva due fermate e loro ingenuamente avevano dato retta al vecchio capotreno, un essere meschino che cercava di portare con sé più anime possibili. Sarebbero dovuti scendere alla stazione successiva, quella del vero paese di Stoffanera, abitato da persone come loro. 
Nives abbracciò Mirko quando si trovarono di fronte alla cascina, ora completamente nuova, ornata di fiori e ghirlande. Stoffanera era un paese allegro, dove tutti vivevano in perfetta armonia. Il treno per loro non tornò mai più in stazione, ma Nives e suo figlio erano contenti di aver trovato la pace. 

Ogni mattino Mirko sente il fischio lontano del treno che porta nuovi arrivati. Si reca precipitosamente alla stazione con il cuore in gola. Sa che un giorno suo padre li raggiungerà. E finalmente torneranno a essere una famiglia felice. Per sempre.  

sabato 22 febbraio 2014

Le stelle, tra luce e sfumature



Le stelle. Corpi luminosi che brillano di luce propria emanando energia attraverso lo spazio. 
Le osserviamo lassù, nel cielo, così lontane nonostante appaiano vicine. Nelle notti dove il cielo è limpido e terso se ne possono vedere a centinaia, ma ne basta anche solo una per poter fantasticare, immaginando l'immensità dell'universo. Basta una sola stella cadente per poter esprimere un desiderio, o una stella cometa per richiamare alla memoria la storia della natività di Gesù oltre che a cercare di comprendere la portata eccezionale del fenomeno stesso. 
Ma una stella può voler dire molte cose. 
Nel periodo delle feste si può regalare una stella di Natale, pianta ornamentale dai petali rossi divenuta un simbolo delle festività natalizie. Durante un escursione in montagna ci si può imbattere in una stella alpina, bellissimo fiore dai petali bianchi, il cui nome è anche utilizzato per un noto formaggio svizzero. 
Una stella è anche un personaggio famoso, una stella del cinema, un cantante o un asso dello sport. 
Una stella è un ideogramma, un simbolo con una sagoma normalmente a cinque punte, ma che può essere anche a sei punte come la stella di David o a più punte. Viene utilizzata sulle bandiere nazionali di alcuni stati.
Una stella sulla maglia di una squadra di calcio equivale alla vittoria di dieci scudetti.
Una stella marina è un invertebrato della classe degli asteroidei, vive nel mare e si nutre di piccoli crostacei e molluschi.
Una stella può essere un nome di persona.
Una stella è un simbolo di fortuna.
Una stella è quel punto luminoso nel cielo che è stato osservato e studiato fin dalle civiltà antiche, dando vita a una serie di significati tramandati nei secoli e in continua evoluzione.
Una stella è la rappresentazione della lotta tra la luce e le tenebre, è un punto di riferimento, come lo è stata la stella polare per tanti navigatori e viaggiatori.
Una stella quindi può essere una guida per tanti esploratori della vita che grazie alla sua luce cercano di farsi strada nell'incertezza del proprio futuro.

martedì 18 febbraio 2014

Il valore della vita



Siccome non voglio mai andare a scuola e preferisco bighellonare con i miei amici, un giorno mio padre mi dice:
«Oggi verrai con me a lavorare. Così vedrai come si fatica!»
Mio padre fa il giardiniere, va a potar piante, rastrella foglie e taglia l'erba nei giardini della città.
Quel giorno deve occuparsi niente meno che del giardino della terribile famiglia dei Biechi.
I Biechi sono ricchi e potenti, la loro casa è chiusa da una grande muraglia e per questo fa un po' paura. Chissà cosa mai si nasconde là dentro.
Ci incamminiamo alle prime luci dell’alba. Sono ancora assonnato e cammino lentamente, ma sorrido al pensiero di non essere rinchiuso a scuola quel giorno. Quando arriviamo in cima alla collina il cigolio del cancello mi fa sobbalzare. Seguo mio padre che già si appresta a varcare la soglia della dimora dei Biechi. Andiamo solo a potare delle piante e a tagliare l’erba, non c’è niente di cui preoccuparsi. Inoltre penso che appena mi annoio me la posso svignare per andare dai miei amici. A che mi serve studiare o lavorare? Preferisco starmene con le mani in tasca a fischiettare, senza pensieri o preoccupazioni, queste cose le lascio ad altri.
Con un tonfo sordo il cancello si richiude alle nostre spalle. 
Un uomo dalla lunga barba bianca ci aspetta in fondo al viale. I rovi si diradano man mano ci avviciniamo al vecchio, sostituiti ben presto da cespugli di bacche rosse. L’anziano ci saluta, pare gentile e cortese. 
Alberi rigogliosi dalle foglie lucenti, fiori dai profumi inebrianti, colori vivaci e intensi e l’aria che odora di rugiada. La piacevolezza di quel luogo incantato ci avvolge in pochi attimi. Il vecchio ci invita a seguirlo. Cammino sbalordito accanto a mio padre, anch’egli stupito da tanta bellezza.
«Questo cortile pare un paradiso, sarà un piacere lavorare quassù» esclama.
Annuisco sorridendo, la mattinata volge al meglio, altro che studiare e andare a scuola. 
Il cinguettio degli uccellini diviene una soave melodia mentre diversi animali del bosco fanno la loro comparsa. 
Tra le mura di cinta della casa in collina si svela ai nostri occhi la realtà sorprendente della famiglia dei Biechi. Il vecchio vive da solo da molti anni: la moglie malata l’ha lasciato da tempo e i figli sono all’estero per lavoro. Egli è un uomo pieno di vita, ricco e benestante, e gode di buona salute. Tuttavia preferisce condurre i suoi affari in gran segreto e per questo nessuno sa granché di lui. 
Camminiamo piacevolmente per un po’ di tempo addentrandoci nell’immenso giardino. Alberi secolari sembrano volgere le proprie fronde al cielo, in una sorta di silenziosa preghiera. Restiamo ammutoliti quando un arcobaleno dai colori meravigliosi compare improvvisamente innanzi a noi. Osservo estasiato le bellezze della natura e sorrido compiaciuto, è divertente andare a lavorare!
Improvvisamente mi ritrovo solo.
In lontananza vedo mio padre, lo saluto, ma il suo volto si contorce in un’espressione cupa e malinconica. Un tuono squarcia il silenzio e il cielo diviene completamente oscuro. Il vecchio dalla barba bianca, che ci ha accolto con gentilezza accompagnandoci in quell’entusiasmante passeggiata, siede ora in cima a una roccia. Avvolto nella tunica bianca tiene le gambe incrociate, ma i suoi piedi sono diventati orribili zampe di capra. Gli occhi sono neri come la pece e uno strano ghigno si dipinge sul suo volto.
«Tuo padre ti sta aspettando al cancello. L’ho fatto venire qui, ma è del tuo aiuto che ho bisogno. Sta a te decidere, se affrontare la vita come lui, faticando per avere un po' di gioia e soddisfazione o lasciarti cullare dalle meraviglie di questo mio mondo. Hai visto cosa ti posso offrire. E potrai portare anche i tuoi amici se decidi di lavorare per me. Ma devi decidere ora» tuona il vecchio minaccioso.
«Ma io vivo con la mia famiglia e mio padre vuole che torni a scuola. Che lavoro dovrei fare? Sostituire mio padre?»
«Oh, no! Non mi interessa che tu venga a fare il giardiniere. A me serve un pastore!»
«Un pastore? Ma io non so nulla di animali...» rispondo atterrito.
«Tu non sai niente di niente, non ti impegni a scuola e non vuoi faticare per vivere. La vita di tuo padre non fa per te. Te lo leggo negli occhi. A me serve uno stolto per  pascolare il mio gregge.»
Il vecchio si alza, con dei balzi si muove rapidamente verso un dirupo che appare improvvisamente alle mie spalle. Il giardino scompare del tutto e con esso pure mio padre. Tutto viene avvolto da un cielo color porpora mentre lingue di fuoco lambiscono arbusti scheletrici a ridosso del precipizio. Il corpo ricurvo del vecchio pare consumato da millenni, la tunica candida va contorcendosi per il forte calore. L’eco della sua voce è assordante. Mi afferra brutalmente, le dita scarnite infilano affilate unghie nere nella mia pelle. Ha gli occhi infuocati.
«Lavora per me. Pascola il mio gregge!» urla terribilmente.
Dove sorgeva il meraviglioso giardino che avevamo attraversato poco prima vedo un mucchio di persone muoversi come bestie senza guida. Odo versi raccapriccianti di anime perdute che si straziano dal dolore e che mi circondano in un attimo. Istintivamente chiudo gli occhi e mi copro le orecchie con le mani, ma i loro lamenti rimbombano nella mia testa.
Poi mi sveglio.
Sono sudato e tremante, percepisco il ritmico ticchettio dell’orologio posizionato sul comò. Mancano ancora alcuni minuti all’alba. Mio padre bussa alla porta.
«Alzati, che devi andare a scuola! Altrimenti vieni a lavorare con me oggi, devo recarmi dai Biechi. Mi hanno chiesto di curare il loro giardino.»
«No!» grido confuso «preferisco andare a scuola!»
«A bighellonare con i tuoi amici? Tanto non combini mai niente di buono!»
«Non è vero» rispondo amareggiato «prometto che mi impegnerò! Da oggi studierò e diventerò bravo a scuola.»
 Mio padre si sofferma per un istante sull’uscio, in silenzio.
«Speriamo sia così, davvero» sospira richiudendo la porta.
«Papà! Aspetta!» grido precipitandomi fuori dal letto mentre lo vedo uscire di casa con il tagliaerba e gli attrezzi in mano. 
«Non andare dai Biechi» lo esorto, abbracciandolo.
Lui sorride ricambiando l’abbraccio.
«Non ti preoccupare, sono brava gente. Te ne ho parlato ieri sera a cena. Il vecchio è un po' burbero, ma comunque è una brava persona. Ora è troppo debole per badare al suo giardino e mi ha chiesto se ogni tanto posso pensarci io. Sua moglie è malata e i figli non sono mai a casa.»
Lo guardo negli occhi e nel suo sguardo compassionevole intravedo l’amore per me e la mia famiglia, capisco che nonostante la fatica gioisce della vita. 
Mi vesto velocemente, metto lo zaino in spalla, saluto mia madre e mi precipito a scuola.
Per la prima volta arrivo puntuale, ascolto con attenzione la lezione, sogno di diventare come mio padre e mi innamoro perdutamente della vita.  



sabato 15 febbraio 2014

La dama bianca e il suo amante



Quando sa che Lei deve arrivare, tutto cambia. Il cuore palpita, la tensione aumenta, l'attesa pare infinita. Ogni cosa perde importanza, attende solo di rivederLa di nuovo, desidera che sia come l'ultima volta, anzi ancora meglio. Nelle luci soffuse della notte cerca di intravederLa, dalla finestra di casa scruta la strada buia sperando che arrivi il prima possibile.
La notte scorre pigramente, l'amante non riesce a chiudere occhio, gira per casa come un leone in gabbia, si reca continuamente alla finestra, ma Lei si ostina a tardare. Quando la stanchezza prende il sopravvento, lo spasimante crolla sfinito. Il suo sonno è turbato, gli incubi lo pervadono, forse Lei non verrà. Sa bene che Lei si fa sempre desiderare, a volte arriva improvvisa per poi sparire rapidamente, altre volte si fa annunciare e poi manca l'appuntamento, e lui si sente tradito. L'amante non ci vuole pensare, cerca di rilassarsi, e allora ecco che sogna finalmente di incontrarLa, di stringerLa a sé. Poi si desta all'improvviso, la solita domanda che lo perseguita da ore, se non da giorni. Sarà arrivata? Porge l'orecchio nel tentativo di scorgere la sua voce, gli pare di udire un flebile rumore giungere da fuori. E' Lei, è arrivata!
Il suo sussurro è inconfondibile, il suo movimento grazioso e pacato. La osserva, inizialmente pare timida e schiva, ma poi si avvicina, elegante e immacolata, è davvero bella. L'amante scende in strada, l'aria gelida che sferza il volto. Le va incontro, La abbraccia e ride di gioia.
La magia si compie, l'entusiasmo dell'amante è alle stelle. Ora che Lei è arrivata vorrebbe che si fermasse il più a lungo possibile, e che una volta ripartita tornasse più spesso a trovarlo. Vorrebbe che Lei fosse sempre come quando l'ha vista la prima volta, candida e morbida. Lei decide di restare per qualche giorno. Il mondo si trasforma, come d'incanto Lei riesce a mutare i colori di ogni cosa avvolgendo tutto con il suo mantello bianco, in un abbraccio morboso.
L'amante ricongiunto alla sua dama è come un guerriero invincibile, la sua forza aumenta, non teme il freddo né la fatica. Si gode ogni istante del tempo che sta con Lei, sa bene che prima o poi dovrà ripartire. Il momento del distacco è crudele, ma la speranza di ritrovarLa è sempre forte. Continuerà ad attenderLa, e ogni volta che Lei tornerà sarà come fosse la prima, quando si sono conosciuti.
Chissà, forse un giorno andranno a vivere insieme, in quel luogo fantastico e lontano da dove Lei magicamente arriva.   

mercoledì 12 febbraio 2014

Pugnali di carta



Si erano addestrati duramente, per giorni e giorni, trascorrendo notti insonni e cercando di resistere alla stanchezza e alla fatica. Quando arrivò il fatidico momento della battaglia, entrambe le fazioni erano determinate a vincere annientando l'avversario. L'alba rischiarava la radura dove i contendenti si erano dati appuntamento. Armati di tutto punto si scrutavano nella penombra, silenziosi, ma attenti a non concedere la prima mossa all'avversario. Un gufo appollaiato sul ramo di una vecchia quercia osservava impassibile la scena che andava svolgendosi al di sotto. L'erba era ancora bagnata dalla rugiada della notte, faceva freddo e la nuda roccia che frapponeva le fazioni pareva di ghiaccio. Il primo gruppo avanzò lentamente, era composto da una dozzina di persone in tutto. Gli avversari, in egual numero, non persero tempo, avvicinandosi al centro dello spiazzo. Sguardi ostili e muso duro. La tensione era palpabile nell'aria. Quando il sole sorse completamente, la roccia fu avvolta da un fascio di luce accecante. Era il segnale tanto atteso. Gocce di rugiada pendevano dalle foglie degli alberi scintillando come preziosi diamanti. Il gufo si scosse all'improvviso, dimenò le ali scrollandosi alcune vecchie piume di dosso. Poi prese il volo andando a cercare un riparo dalla luce del giorno. I contendenti conversero al centro, ciascuno estrasse le proprie armi. I due capitani si staccarono dai rispettivi schieramenti, venendosi incontro. Quando furono l'uno di fronte all'altro si strinsero la mano fissandosi negli occhi, poi a passo spedito tornarono ai propri posti di combattimento. Intanto molta gente era accorsa, la notizia dell'imminente scontro si era presto divulgata fino ai paesi limitrofi. I sostenitori della prosa acclamavano i propri beniamini, mentre i seguaci della poesia facevano altrettanto. Si udirono grida di incitamento quando il primo dei prosatori estrasse la propria pergamena e cominciò a leggere a gran voce. Ma il poeta rivale non si perse d'animo ribattendo in rime e versetti. Entrambi gridavano a squarciagola, divenendo paonazzi dall'impeto con cui sostenevano le proprie convinzioni, fino a quando il poeta dovette arrendersi rimanendo senza fiato. Perciò intervenne un secondo poeta che in pochi istanti tramortì l'esausto prosatore ancora in gioco, e a ruota toccò a tutti i membri dei due gruppi fronteggiarsi in un saliscendi di battute, canzonette, testi e parole. La tensione era alle stelle, lo scontro andava verso un epilogo incerto, gli adepti erano sfiniti e rimasero in gara solo i due capitani che si fronteggiavano duramente. Erano passate alcune ore dall'inizio della battaglia quando il cielo cominciò a incupirsi. Il vento si levò minaccioso facendo volare decine di bozze di carta, pergamene, tomi sgualciti, penne e calamai. Le armi dei contendenti erano a terra, la folla di curiosi e sostenitori si dileguò rapidamente mentre il cielo scatenava la sua furia riversando una violenta pioggia sulla radura. Le voci dei due capitani erano ormai flebili a causa del fragore dei tuoni. Neppure i loro compagni che erano a poca distanza riuscivano a udire il suono della loro voce, e nessuno poteva dire chi avesse vinto.
Il giorno seguente la gente non parlava d'altro. L'amore per la letteratura aveva spinto i due gruppi a scontrarsi verbalmente per stabilire se dovesse essere la prosa oppure la poesia a regnare indiscussa, ma il fato aveva stabilito che non potevano esserci né vincitori né vinti e che quindi entrambi i generi avevano diritto a esistere.

martedì 11 febbraio 2014

Un colpo di fulmine



Il cielo andava scurendosi rapidamente quando udii i primi tuoni squarciare il silenzio. Un temporale era in arrivo, la notte incombeva ed ero ormai certo di essermi perso tra le colline. Accostai la macchina vicino a una cascina abbandonata, poco oltre intravidi un agglomerato di case fatiscenti che parevano abitate. Luci fioche e tremolanti illuminavano le finestre. Cominciava a piovere, grosse gocce cadevano a terra bagnando la strada polverosa, mentre i lampi illuminavano gli alberi come fossero spettri. 
Un po’ titubante mi avvicinai a un casolare da cui provenivano risate e schiamazzi. 
Mi decisi a bussare al portone. Le voci all’interno cessarono, il battito del cuore accelerò mentre l’uscio veniva aperto. Proprio in quell’istante un fulmine cadde vicino a me, non ebbi nemmeno il tempo di aprir bocca che fui sbalzato lontano. Picchiai il capo e tutto divenne buio.
Quando mi risvegliai vidi un’anziana donna prendere una fiasca di vino e versarne in un bicchiere, riempiendolo fino all’orlo. Me lo offrì. Ne bevvi una bella sorsata: era davvero buono. La donna compiaciuta ne versò un altro. All’improvviso un gruppo di uomini dalla folta barba e dall’aspetto trasandato irruppe nella stanza. Ridevano e si davano pacche sulle spalle. Si avvicinarono, mi aiutarono ad alzarmi e mi portarono fuori, lungo le strade di un vecchio borgo, tra vicoli stretti e angusti, illuminati da fiaccole e pieni di gente dall’aspetto antico che cantava e festeggiava. Saltimbanchi, giullari e trampolieri si esibivano scherzosi. Ricordavo di aver picchiato la testa quando il fulmine era caduto. Probabilmente le persone di quella casa mi avevano soccorso. Ma non sapevo dove fossi in realtà perché mi sembrava di essere stato catapultato nel passato, durante l’allegra festa di un villaggio medievale. Ovviamente trovai più logico pensare di essermi imbattuto in una sagra di paese in costume d’epoca. Tra le tavolate il vino scorreva a fiumi, grossi spiedi rigiravano tra le fiamme, il profumo della carne cotta alla brace era invitante e l’aria satura di aromi di spezie. Il tepore del fuoco scaldava la festa, cominciata appena finito il temporale. Mi unii alla baldanzosa compagnia, bevvi ottimo vino servito in coppe dorate. Mangiai tortelli e gnocchi di patate, enormi bistecche, costine di maiale colanti, salamelle fumose, riso e fagioli, pomodori succulenti e altre svariate prelibatezze. Furono serviti torte e dolci meravigliosi. Ero completamente annebbiato, non più spaurito. 
Più tardi fece il suo trionfale ingresso nella piazza un nobile uomo a cavallo, un barone, accompagnato da schiere di giovani damigelle e leggiadri cavalieri. I musicisti diedero fiato alle trombe. Il barone slegò una pergamena e lesse un messaggio alla folla, elogiando la vendemmia e la bontà del vino ricavato dalle uve della sua terra. La baldoria continuò fino a quando spettacolari fuochi d’artificio esplosero nel cielo rischiarandolo e concludendo la serata. 
Nel lento disperdersi delle persone che tornavano alle proprie case, un puntino luminoso in fondo alla strada attirò la mia attenzione. La mia auto, su cui si rifletteva il chiarore della luna. Era tempo di tornare a casa. 
Mi voltai per salutare il gruppo di amici, ma mi accorsi che regnava uno strano silenzio. Erano spariti tutti. Tornai nella piazza e con grande stupore vidi che non vi era alcuna traccia della festa che si era appena svolta. 
I vicoli erano deserti, non c’erano dame né cavalieri, nessun fuoco acceso e l’aria fresca mi sferzava il volto. Intimorito e con il sole che andava ormai sorgendo mi rimisi alla guida e poco dopo ritrovai la strada che mi avrebbe riportato a casa. 
Non raccontai a nessuno quello che mi era accaduto. Ma ogni anno in autunno, durante un temporale, torno in quel borgo sperduto sulle colline, nella speranza di poter assaporare ancora una volta un bicchiere del vino più incredibile che abbia mai bevuto.

domenica 9 febbraio 2014

Le pecore vampiro e l'incanto irlandese



Quando la corriera ci lasciò a Dunquin, sulla costa irlandese, era già pomeriggio inoltrato, il sole andava calando ed era tempo di raggiungere l'ostello. Il viaggio era stato piuttosto lungo, avevamo fame e non vedevamo l'ora di andare a riposare. La strada saliva tortuosa tra i prati che la nebbia andava rapidamente avvolgendo. C'erano poche case, alcune finestre erano illuminate, e in giro non c'era un'anima viva. L'ostello era una casetta bianca, non molto grande, con le camerate al piano superiore, una piccola cucina e una stanza con camino e poltrone per gli ospiti al piano terra. 
Eravamo entrati nell'ostello da qualche minuto, ma non c'era nessuno a riceverci. Notiamo che sul muro era affissa una bacheca con alcuni avvisi e dei disegni dove vi erano raffigurati dei campi con le pecore. Tipico dell'Irlanda, tanto verde e tante pecore, te le trovi anche sulla strada, a volte intere greggi che lentamente sfilano a fianco delle automobili. Curioso tuttavia vedere queste raffigurazioni. Poi l'occhio cade su un piccolo particolare che in un primo momento ci era sfuggito. Le pecore non sembravano affatto docili, avevano un ghigno malizioso, quasi feroce, e mostravano piccoli denti acuminati. Ah, sorridiamo e.. deglutiamo allo stesso tempo. Dove eravamo finiti? Poi leggiamo una didascalia posta accanto, era un messaggio abbastanza eloquente. Diceva che a Dunquin di notte si incontrano le pecore vampiro... "Mah - pensiamo - visto che non è ancora arrivato nessuno, forse è meglio squagliarsela!" Ma nell'annuncio accanto leggiamo che la corriera passa da quelle parti una sola volta al giorno. Perfetto! Quindi una notte dobbiamo trascorrerla lì di sicuro. All'improvviso sbuca da dietro una porta una donna, chiediamo se può darci ospitalità e ci dice che siamo i benvenuti... Sorridiamo e.. non lo so, in quel momento eravamo un po' confusi. Nell'ostello non c'era possibilità di cenare, o meglio c'era una cucina, ma ciascuno doveva cucinarsi quello che aveva. E noi non avevamo comprato niente da mangiare. Nel piccolo villaggio di pescatori dove ci eravamo fermati all'ora di pranzo avevamo dovuto accontentarci di un toast al tonno, ma non ci eravamo preoccupati più di tanto. Quando la sera ci siamo accorti che in quell'angolo sperduto di mondo non c'era nemmeno un posto dove mangiare un boccone abbiamo quasi pensato di andare a bussare alla porta di una delle sparute case in mezzo ai campi.. Ma non volevamo camminare tra le inquietanti pecore, e ce n'erano davvero tante. 
Sfidando la paura ci siamo avvicinati a uno steccato osservando quegli ammassi di lana addormentati. Parevano del tutto innocui. Perchè mai si dovevano spaventare i forestieri con delle storie assurde? Non l'ho mai capito.. L'aria umida ci sferzava il volto mentre innanzi a noi una casa assai più grande compariva su di una collina nel diradarsi della nebbia. Un ristorante! Incredibile.. Corriamo entusiasti ed entriamo di gran lena in quello che doveva essere il locale più elegante, ma isolato d'Irlanda. Con addosso un k-way e abiti non certo formali veniamo pure snobbati dal personale, nonostante il ristorante fosse vuoto! Una sola coppia stava cenando, erano Dracula e sua moglie, giunti in vacanza direttamente dalla Transilvania. Scherzo, erano i proprietari. Ci sediamo a un tavolo e ceniamo divorando ogni cosa, in quel momento ci sentivamo noi i vampiri. Innaffiamo il tutto con delle ottime pinte di Guinness prima di rientrare all'ostello, incuranti delle pecore che ci spiavano nascoste nell'erba. Giunti nella camerata dell'ostello siamo crollati per il sonno e abbiamo dormito fino all'alba. 
Non come qualche notte prima in un rudere nei dintorni di Killarney dove avevamo dovuto far sloggiare decine di ragni dalla stanza.. Quella notte non era trascorsa affatto bene, un tizio tedesco o forse olandese si era svegliato di soprassalto urlando come un pazzo. Correva in tondo e continuava a toccarsi la testa. Io avevo acceso la luce e con gli occhi sgranati lo guardavo terrorizzato! Non so cosa avesse sognato, magari i ragni che tentavano di divorarlo..
La mattina usciamo dall'ostello e discendiamo nuovamente la strada percorsa la sera prima fino a una piccola insenatura dove è pronto a salpare un battello arrugginito. In poco tempo raggiungiamo le isole Blasket, altro luogo bizzarro di quella parte costiera d'Irlanda. Nel porticciolo veniamo accolti da alcune persone del posto che ci invitano in una baracca ad assaggiare uno spuntino a base di... tonno. Osserviamo allibiti una giovane donna che cammina scalza sul terreno disseminato di sterco di pecora, aveva i piedi neri. Proseguiamo lungo il sentiero che sale sulla cima dell'isola avvolta nelle nuvole. Sotto di noi si sente il fragore del mare, e quando finalmente la foschia si dirada appare maestoso l'Oceano Atlantico. Il fascino dell'oceano visto da lassù è indescrivibile, ammaliante e spaventoso allo stesso tempo. Assorto nei miei pensieri, lo sguardo fisso nella distesa blu, mi rendo conto di quanto siamo piccoli di fronte alla maestosità della natura. Eravamo al confine del continente europeo, al di là dell'oceano c'era la costa americana. Provai a immaginarla, era davvero lontana. 
Pochi giorni prima ci eravamo già trovati a tu per tu con l'Oceano Atlantico, sulle magnifiche scogliere delle Cliffs of Moher, nei pressi di Galway. Sdraiato a pancia in giù sulle rocce a strapiombo osservavo stupefatto le onde infrangersi sugli scogli, mentre alcuni giovani del posto suonavano magnifiche melodie celtiche rendendo quegli istanti memorabili. 
Nel pomeriggio siamo rientrati dalle Blasket, le nubi si erano riaddensate e sotto una debole pioggia siamo tornati verso l'ostello dove abbiamo dovuto trascorrere un'altra notte. La corriera era ormai passata, ci toccava un'altra cena al ristorante più "chic e affollato" della regione delle "pecore vampiro", ma la consapevolezza di vivere un'avventura in una delle terre più belle del mondo ci dava la forza e l'entusiasmo per andare sempre avanti.

sabato 8 febbraio 2014

Il dittatore di Marmellata



Il vento soffiava gelido dalle montagne, tutto ormai era cambiato. Il cielo andava ricoprendosi di nuvole gonfie di pioggia, si avvertiva un forte odore di umidità nell’aria.
Greg se ne stava seduto sulle rocce a osservare la valle e l’immensa distesa di alberi da frutta tra i quali era cresciuto fin da piccolo. Il fruscio delle foglie alimentava in lui la malinconia.
“Possibile che sia accaduto tutto questo?” pensava mentre una lacrima sgorgava lenta sul suo viso pallido e infreddolito. In lontananza scorreva il fiume, divenuto un rigagnolo in quegli ultimi mesi. L’acqua piovana tentava di ridargli il vigore di un tempo, ma ben presto tornava a essere lo squallido fiumiciattolo che attraversava la vallata ormai spoglia e malata. 
Ogni giorno Greg se ne andava lassù in cerca di un po’ di tranquillità. Quei luoghi incantevoli sapevano donargli una sensazione di pace che sapeva di antico, di tempi meravigliosi ormai tramontati. Sedeva sulle rocce in prossimità della boscaglia, su quei massi lisi dalle piogge di un tempo e ricoperti di muschio ed erbacce alte quasi mezzo metro. Sedeva lì, tutto solo, esule figlio di un mondo ostile. Il suo sguardo si spingeva fino all’orizzonte, dove nei pochi spazi sgombri di nubi le tonalità celesti assumevano sfumature bluastre e cupe. I tramonti dell’infanzia erano un ricordo lontano. Ora la notte giungeva più rapida e decisa, la volta nera priva di stelle e di corpi luminosi sostituiva il giorno. Il sole tramontava timidamente, dopo una giornata offuscata e trascorsa nell’ombra. Nei giorni gloriosi degli anni passati splendeva alto nel cielo riscaldando tutta la vallata; i suoi raggi caldi penetravano anche negli antri più oscuri, raggiungendo le radici delle grandi piante della foresta, fin dentro le grotte delle montagne. Gradazioni di colore rosa acceso divenivano lentamente violacee, fino a dipingersi in un quadro meraviglioso dalle tonalità giallo ocra pronte a far da sfondo a un fuoco rosso vivo. Infine, anche nelle brevi ore del suo riposo, donava parte della sua luce alla luna e alle stelle che brillavano in cielo rendendo la notte meno buia. 
Ma ora, nei tempi cupi, le nuvole e la polvere soffocavano l’azzurro. Sulle montagne l’erba era alta e ancora abbastanza verde, ma non nella vallata. La vegetazione un tempo fitta si era ben presto sfrondata, erano cresciuti pochi nuovi alberi. Tutto era arido e secco, il caldo opprimente uccideva quegli alberi coltivati con amore e saggezza, che contraccambiavano con la miglior frutta della regione. 
Un tuono squarciò il silenzio delle memorie di Greg. Mestamente si alzò per tornare dai suoi compagni che intanto stavano discutendo rumorosamente all’interno della capanna. Quella sera era stata indetta una consulta. Bisognava decidere il da farsi. La situazione si era aggravata notevolmente. 
Greg cominciò a correre, dirigendosi verso il villaggio. Nascosto tra le fronde del bosco fitto e buio sorgeva un accampamento di poche tende realizzate con foglie e corde di paglia intrecciata. Poco più in là vi era una capanna in legno, di modeste dimensioni, ma sufficiente per accogliere tutti gli abitanti del villaggio durante le riunioni serali. All’interno era stato acceso un falò mentre tutti mangiavano e riferivano le novità che giungevano dall’altra parte della vallata. Il paese ormai era stato abbandonato da tempo. 

Greg addentò la focaccia con avidità. Il cibo non era molto e veniva razionato in modo che tutti potessero averne una parte. Al mattino una scodella di latte e una fetta di pane con burro, e la sera una focaccia preparata dalle donne con radici dolci e, se si era fortunati, fragole di bosco, mirtilli, bacche, noci e un po’ di frutta razziata nella valle. 
In una piccola caverna, un probabile rifugio abbandonato da qualche animale della foresta, era stato allestito un piccolo magazzino con tutto ciò che era stato messo da parte per affrontare la vita sulle montagne. In paese non era rimasto più nulla, da anni ormai gli abitanti non vi facevano ritorno: nella vallata deserta la polvere ricopriva ogni cosa, il vento caldo soffiava costantemente facendo sbattere le ante delle finestre. Qualche porta era stata divelta. Le incursioni si erano succedute spesso dall’arrivo dei soldati, ma poi questi erano divenuti numerosi e penetrare di nascosto in paese era divenuta impresa quasi impossibile.
Greg si pulì la bocca con il dorso della mano destra, qualche briciola cadde sulle ginocchia. Le raccolse con le dita e le inghiottì. Spesso ricordava il giorno in cui tutto era cambiato, anche se cercava di spazzare quelle immagini dalla sua mente. Ricordava i profumi inebrianti che solleticavano le sue narici: la dolcezza nell’aria, gli odori e i colori si mescolavano nella squisitezza della vita che conduceva. Era spensierato, allegro, felice di alzarsi presto la mattina per recarsi insieme agli altri nei campi. Il fischiettio degli uccellini rendeva danzante ogni suo movimento, Greg ballava e cantava, e con lui tutti gli abitanti del paese. Fischiettando imitava i soavi richiami degli animali che giungevano dagli alberi durante il raccolto, li invitava a unirsi a loro e l’incanto si compiva alle soglie del paese quando fringuelli, passeri e scoiattoli, cerbiatti e leprotti si univano agli abitanti per aiutarli a riempire le ceste di frutta. Ma poi in lontananza aveva visto la polvere. Una nuvola immensa aveva oscurato il sole, la brezza estiva era improvvisamente mutata in un vento arido. La terra aveva tremato, pesanti zoccoli avevano scosso il suolo da est. Il mondo di Greg era andato incontro a una terribile svolta.

Era arrivato come una furia. Il cavallo dal manto grigio nitriva furibondo mentre il suo cavaliere strattonava bruscamente le briglie. Il silenzio era piombato pesante come un macigno. 
«Io sono Re Gustav III, Signore delle Terre Aride, delle Terre Incolte e dei Paesi Morenti, Generale e Comandante Supremo della Milizia. Chi comanda qui?» aveva esclamato a gran voce il piccolo uomo a cavallo.
Gli abitanti lo avevano osservato con gli occhi strabuzzati. Il Generale era sceso da cavallo goffamente. Era un individuo piuttosto buffo. Basso e grasso, indossava una divisa militare che gli stava stretta, i bottoni della giacca erano quasi del tutto scuciti. I pantaloni erano infilati in un paio di stivali neri lucidi con tacchi spessi. Un paio di occhialetti tondi affondavano nel viso roseo e paffuto. Aveva dei lunghi baffi e un cappello largo gli copriva la fronte. Sul petto erano appuntate decine di medaglie, molte delle quali d’oro.
«Allora?! Nessuno è il capo qui?» aveva chiesto in tono minaccioso mentre andava aggiustandosi i calzoni. I suoi occhi piccoli e neri avevano contemplato severi gli abitanti che erano rimasti in silenzio. Erano stupiti di trovarsi di fronte un tale così bizzarro. Dietro di lui nel frattempo erano giunti una dozzina di soldati. Avevano marciato a lungo a giudicare dalle divise impolverate e sudice.
L’arrivo del militare aveva colto di sorpresa gli abitanti della valle. Nessuno immaginava quale fosse il motivo della sua visita. O meglio, nessuno poteva nemmeno lontanamente pensare che quel piccolo individuo avesse deciso di stabilirsi nella loro terra. Nei giorni a seguire fece accampare i suoi soldati in città e stabilì il proprio comando nella casa di Goram, lo zio di Greg, nonché capo del villaggio.
L’allegria del paese si era dissolta. Gli abitanti si erano riuniti per decidere come affrontare l’insolita situazione, ma i soldati erano intervenuti con la forza per disperderli. Quando Re Gustav passeggiava per le strade pretendeva che gli abitanti si inchinassero di fronte a lui. Non aveva mai fornito spiegazioni riguardo al suo arrivo e tutti avevano sperato che fosse solo di passaggio e che presto se ne sarebbe andato.
Ma venne il giorno in cui si compì uno scempio tale da indurre gli abitanti a ribellarsi all’oppressore. I soldati avevano assistito al raccolto della frutta ormai matura e se l’erano fatta consegnare per ordine del Generale, il quale l’aveva versata nello sterco dei cavalli. Odiava la gente del posto, la loro frutta e tutto ciò che li riguardava. Ne era seguito un parapiglia tra gli abitanti e i soldati, i quali avevano prevalso costringendo il popolo alla fuga sulle montagne.

Il Generale si era rivelato un essere spregevole e gli abitanti erano venuti a conoscenza della sua triste fama. Da anni vagava per le terre di tutto il mondo per distruggere ciò che incontrava sul suo cammino. Nei luoghi dove si fermava lasciava solo morte e distruzione. Era un uomo meschino e crudele e pare che tutto il suo odio verso il mondo fosse nato dalla solitudine in cui viveva. I suoi soldati non erano altro che mercenari pronti a tutto pur di guadagnare un po’ di denaro. Gente senza scrupoli, dedita alla guerra. Ubbidivano ai suoi comandi e basta. Tutti sottostavano alla sua volontà: era estremamente egoista e non gli importava di niente e nessuno. Odiava il mondo. Odiava le persone, gli animali e la natura. Per questo distruggeva tutto ciò di bello che incontrava. 
Ma pochi in realtà sapevano che Re Gustav III era stato un uomo buono un tempo. Aveva governato nel Regno del Benessere regnando con saggezza e prosperità. Era buono, ricco e magnanimo e i suoi sudditi erano felici. Tuttavia i paesi vicini, che vivevano nella povertà, tra pestilenze e carestie, avevano chiesto il suo aiuto, ma lui aveva rifiutato, temendo la disapprovazione del suo popolo. 
Un giorno un terribile incendio distrusse il suo regno e lui fu l’unico sopravvissuto. Era fuggito chiedendo aiuto alle popolazioni delle terre vicine, ma queste l’avevano allontanato ed era rimasto solo. Si era ammalato e la pazzia lo aveva travolto. Con il denaro rimasto aveva assoldato alcuni uomini e aveva formato un esercito. Si era proclamato sovrano di tutte le terre che andava conquistando e man mano distruggendo. Aveva deciso di far fare la stessa fine del suo regno a tutte le terre che avrebbe attraversato. Dopo anni di razzie era infine giunto nel piccolo paese di Marmellata. 

Greg osservò i suoi amici prima di prendere la parola. Dando inizio alla consulta raccontò ciò che aveva appreso dagli alberi del bosco. Gli abitanti, in fuga ormai da mesi, si guardarono stupiti. Sapevano di essere in balìa di un uomo in preda alla follia. La loro terra, un tempo floridissima, stava soccombendo sotto la polvere e la cenere. Re Gustav aveva prosciugato il fiume e i continui incendi nei boschi avevano sollevato un’incessante coltre grigia che oscurava il cielo. La pioggia tardava a arrivare, quasi come se fosse il Generale a impedirlo. La situazione era davvero critica, gli alberi da frutto stavano morendo e gran parte del raccolto era andato perduto. Il Generale si era proclamato Sovrano Indiscusso di Marmellata, ma per gli abitanti altro non era che un despota dal cuore ignobile e un uomo debole che sapeva farsi strada solo con l’uso della forza. 
Greg raccontò che i frutteti avevano tentato la fuga cercando di sradicare le proprie radici, ma molti prugni, meli e altri alberi da frutta erano stati abbattuti dall’esercito del Generale. 
Nella consulta gli abitanti di Marmellata presero una decisione. Finalmente, dopo anni di passività, decisero di ribellarsi. Ben presto si resero conto che nulla potevano contro l’esercito del Generale, i suoi soldati erano feroci e armati, mentre loro erano troppo deboli per affrontarli. Decisero così di chiedere aiuto al Grande Albero e si riunirono attorno alla quercia secolare in cima alla montagna. La notte trascorse in attesa di un segno, di un indizio che li avrebbe guidati verso la liberazione.
All’alba del giorno seguente il segnale tanto atteso arrivò. Greg, che si era appisolato a ridosso delle enormi radici, si destò improvvisamente. Uno scoiattolo arrampicatosi su un ramo scivolò facendo cadere una bacca rossa che teneva stretta fra le piccole zampe. La bacca precipitò sfracellandosi sulla fronte di Greg e riempiendolo di un liquido denso e colloso color porpora. Quelli che assistettero alla scena si sbellicarono dalle risate. Greg si portò le dita al volto per levarsi il frutto spappolato. Osservò divertito la polpa tra le dita ed ebbe l’illuminazione. 
«Credo che il Grande Albero ci abbia mandato un messaggio. Il Generale ci ha cacciato dalle nostre case, ci ha tolto il lavoro, ha ferito la nostra terra. Noi viviamo della frutta che i nostri alberi ci donano ogni anno. Abbiamo reagito quando Re Gustav ci ha umiliato riversando la frutta nello sterco degli animali. Ma i suoi soldati ci hanno perseguitato. In questi anni di esilio nulla abbiamo potuto contro questo spregevole usurpatore. Abbiamo assistito al suo scempio, ma ora ha esagerato abbattendo parte del frutteto. Credo che la sua violenza e la sua prepotenza possano essere affrontate solamente utilizzando armi che il Generale non conosce. Forse dobbiamo far capire a Re Gustav che anche lui può beneficiare della frutta invece di distruggerla. Non sa quanto siano buone le nostre albicocche, le pesche, le mele o le ciliegie. Non le ha mai volute assaggiare.»
«Ma ti sei ammattito?» domandò un tale.
«Come puoi pensare che diventi buono? È crudele, se ne deve andare da qui!» disse un altro.
«Calmatevi. Non voglio diventare suo amico. Dico solo che forse potremmo prenderlo per la gola.  Addolcirlo con le nostre specialità. Dice di odiare tutto ciò che ci fa stare bene, ma non ha mai provato il sapore delle nostra frutta!»
«E non lo farà mai!»
«Sì, invece. Ma solo se noi gli prepareremo qualcosa di speciale!» 
Greg strinse la bacca tra le dita facendone uscire tutto il liquido che si riversò completamente sulle sue mani.
«Gli prepareremo la nostra superba marmellata! Che ne dite?»
«Ma è… un nostro segreto!» risposero in coro gli abitanti di Marmellata.
«Già… nessuno tranne noi ha mai beneficiato della nostra specialità» aggiunse un altro.
«Ritengo che mio nipote abbia ragione» intervenne Goram, finora rimasto in disparte. Possiamo fare un tentativo. Il Grande Albero ci ha dato lo spunto per ammorbidire il nostro nemico. Penetreremo nella valle stanotte e ci procureremo qualche cesto della frutta rimasta. Le nostre donne faranno il resto.»
Un brusio si levò immediatamente tra la gente di Marmellata radunata attorno al Grande Albero. Tutti sembravano d’accordo. Avrebbero perso il loro aguzzino per la gola tentando di addolcire la sua superbia.

Nella notte ombre furtive penetrarono nei frutteti. Gli alberi lasciarono cascare a terra diversi frutti maturi per facilitare la raccolta. I soldati di guardia non si accorsero di nulla, inebriati dall’aroma che riempiva l’aria.

La notte sulle montagne trascorse velocemente. Le donne avevano acceso il fuoco dove avevano fatto bollire la frutta raccolta e pigiata in paioli ricolmi di erbe aromatiche. Prugne, mele, pere, pesche, albicocche, ciliegie, fragole e mirtilli, more e lamponi, tutto venne mescolato con grossi cucchiai di legno fino ad amalgamarsi completamente. Infine vennero aggiunte alcune gocce di succo di bacche rosse, noci tritate e del miele selvatico. L’intruglio, dal profumo intenso e delizioso, rimase sul fuoco per tre ore e al sorgere del sole la marmellata fu pronta. Le donne riempirono una decina di giare fino all’orlo. 

Verso mezzogiorno una bizzarra comitiva entrò in paese. L’aria era colma di polvere, alcuni deboli raggi di sole illuminavano le case abbandonate. Uno strato di cenere ricopriva le strade e i tetti delle abitazioni di Marmellata. In lontananza gli alberi del frutteto parevano arbusti malati, per la maggior parte rinsecchiti e privi di foglie, come scheletri avvolti dalla nebbia.
I soldati non tardarono ad arrivare. Re Gustav venne informato della loro presenza e diede subito ordine di respingere la comitiva.
«Vi intimo di tornare da dove siete venuti» gridò il capitano, un soldato anziano «per ordine di Re Gustav III. Se non obbedirete vi allontaneremo con la forza. Andatevene!»
Greg si fece avanti, per nulla timoroso.
«Abbiate almeno la clemenza di accettare un’offerta da parte degli abitanti di questa valle. Riferite al Generale. Sono sicuro che non rifiuterà…»
«Come osi?! Stai indietro!» gridò un altro soldato.
«Aspetta…» rispose il capitano trattenendo la guardia «di che parli? Perché mai avreste delle offerte per il Generale?»
«Perché possiamo aiutarlo…» sussurrò una donna.
Greg le lanciò un’occhiataccia.
«Aiutarlo? Voi? Ah! Ah! E perché il Generale avrebbe bisogno del vostro aiuto?»  il capitano scoppiò a ridere insieme agli altri soldati.
«Silenzio!» irruppe una voce. 
Il Generale sbucò dalla casupola in mattoni rossi, si avvicinò al capitano che subito si irrigidì salutandolo militarmente. Gli altri soldati lo imitarono all’istante.
«Generale… questi zotici pretendono di…»
«Zitto, ho detto!» sbraitò Re Gustav al capitano. Poi scrutò silenziosamente il folto gruppo assiepato di fronte a lui. 
«Che cosa volete voialtri? Siete stati risparmiati quando non avete voluto accogliermi come vostro sovrano. Potrei trucidarvi ora! Cosa siete venuti a fare di nuovo qui? Non vi è bastato vedere il vostro bel villaggio in fiamme?»
«Signore…» esordì una giovinetta distaccatasi dal gruppo intimorito «siamo qui per offrirle in dono la nostra riconoscenza».
Il Generale strabuzzò i piccoli occhi infossati. Sorrise maliziosamente. Erano anni che non riceveva un regalo. Quello che voleva lo otteneva con la forza. 
«Bene! Avanti allora! Cosa mi avete portato?»
La giovane si voltò chiamando a sé le altre donne. Si avvicinarono al piccolo individuo che le osservava compiaciuto. Appoggiarono a terra una decina di grossi recipienti decorati a mano e avvolti nei fiori. 
«Ah! E questa che roba è? Siete tornati quaggiù sfidando la mia collera per offrirmi dei vasi e dei fiori? Guardie! Catturateli!» urlò Re Gustav improvvisamente.
I soldati balzarono in avanti colpendo i malcapitati con lance e fucili. Alcuni vennero presto immobilizzati e legati. Greg riuscì a defilarsi insieme ad altri suoi compagni, nascondendosi nella nebbia.
«Siete degli sciocchi! Cosa pensavate di fare? Vi farò marcire in cella!» urlava furibondo il Generale saltellando sui suoi stivaletti neri.
Osservò le giare poste innanzi ai suoi piedi e le colpì con un calcio. Una di queste si ruppe e ne uscì una crema morbida e vellutata. Il profumo invase le narici del militare che per un istante vacillò. Anche i soldati avvertirono una strana sensazione. 
In quell’istante Greg e i suoi amici si avvicinarono con cautela ai prigionieri e li liberarono dalle catene. Rimasero tutti in silenzio a osservare il Generale e i suoi uomini. Erano inermi, con lo sguardo sognante perso nel vuoto. Lentamente gli abitanti di Marmellata si avvicinarono ai soldati, aprirono loro la bocca, ruppero i vasi e versarono la crema di frutta sul volto di quegli esseri umani inespressivi. Una luce avvampò, il grugno dei soldati mutò in un’espressione inebetita, in un attimo ripresero conoscenza e incredibilmente incominciarono a saltare e a danzare. 
Re Gustav giaceva ancora inerme nel mezzo di quel ballo. Greg e gli altri continuarono a versargli addosso la marmellata tanto da ricoprirlo del tutto. La divisa del dittatore cominciò a sciogliersi, le medaglie d’oro cascarono a terra, gli stivali si liquefecero. Poi un bagliore rischiarò l’intera vallata che tornò a splendere e a brillare dei propri colori. Gli alberi ripresero vita riempiendosi di foglie e di frutti, il cielo si sgomberò delle nubi, la cenere e la polvere vennero spazzate via da una folata di vento improvvisa. I soldati si misero a correre sparpagliandosi tra le montagne. 
Re Gustav invece rimase lì, come una statua di gelatina posta in mezzo al paese, completamente ricoperto di marmellata, che nei giorni a seguire si solidificò.

Il Grande Albero aveva aiutato il piccolo popolo di Marmellata donando loro alcune bacche rosse. Queste, mescolate nella marmellata di frutta, avevano un potere magico, quello cioè di rendere più dolci anche i cuori più duri e spietati. Solo a pochissime persone non faceva effetto, e per questo venivano tramutate in statue: erano coloro che avevano perso ormai ogni speranza di tornare a essere anime buone, a causa di una sofferenza talmente grande che aveva riempito il loro cuore di polvere e rabbia, e a cui purtroppo non c’era rimedio.